domenica 7 settembre 2008

5 - L'ultima volta di Anton Karas


Lo slancio che gli consumava le ore seduto allo zither, gli permise di affinare una tecnica antica e lo avreste detto un virtuoso, ma con in più una sensibilità, una sofferenza che nutriva la pura esecuzione, la rendeva qualcosa di più di un puro esercizio di maestria.
Le note del suo zither avevano la luce della sua esistenza e l'oscurità dell'ombra della vita che era finita, quella dell'altro Anton Karas, il maggiore dei due.

In breve divenne noto nella città in cui viveva e il locale in cui suonava, il Matera, divenne degno di una attenzione inedita persino per i frequentatori più assidui.
Erano ancora dolorosi i ricordi degli scontri e delle piazze e della disillusione che ne era seguita. Una o due generazioni incise, marchiate a fuoco. Le note del suo zither quella disillusione la placavano, con dolcezza, senza rimuoverla.

Accadde che girassero un film in città, piccola capitale della disillusione...
Il Matera divenne il locale d'elezione del regista del film, perché ogni sera lì si esibiva Anton Karas. Il regista aveva intuito che quella era la musica esatta a evocare la fiera, risoluta disillusione che il suo film raccontava. Le macerie di una gaiezza mai interamente vissuta, anzi impedita.

Ebbe un moto di imbarazzo quando gli porsi un paio di disegni. Erano gli originali di due vecchie vignette satiriche, le propaggini estreme della moda dello zither che proprio lui aveva inaugurato con la colonna sonora di quel film e che aveva soggiogato, fino allo sberleffo di quelle vignette, il mondo intero. Più di quell'imbarazzo, non ottenni altro. Il successo era stata per lui una gioia transitoria, utile a malapena. Gli sguardi del mondo e il suo si erano incontrati, poi avevano smesso di farlo. Il mondo e lui avevano cominciato a perdersi..

Quella volta mi raccontò di aver sentito, un giorno, la sua musica suonata per strada. Un ragazzo intabarrato andava a passo svelto incurante di tutto e tutti, totalmente preso dal suono del suo rudimentale strumento. Anton Karas si nascose in un vicolo per osservare meglio l'esecuzione: era uno strano strumento con sottili tasti di metallo, dotato di piccoli piatti sonori, e il ragazzo pizzicava quei tasti ricurvi e agitava e percuoteva la cassa di legno con aria soddisfatta.
Anton Karas mi confessò che aveva disprezzato la rigidità del suono e della tecnica ma che era rimasto colpito dal piglio del musicista, sicuro di sé e della idea musicale nuova di cui era portatore: quella volta, Anton Karas, sentì di esser tagliato fuori da quella novità e di aver assunto al suo compito.

- pensi che tutti ne abbiano uno?

Non mi rispose. Evidentemente avevo colto il senso del problema: evidentemente aveva sempre pensato di sì e che il suo, di compito, era stato assolto. Il dubbio che potesse anche non esserci un compito da assolvere, non lo aveva mai sfiorato. Fu l'ultima volta che lo vidi.

(Un grazie a Jacopo, suonatore di kalimba)